Non penso di aver mai utilizzato la parola “lanzichenecchi”, eppure ha un’etimologia interessante. Landsknecht, servo della terra o, in senso lato, servo della Patria. Erano crucchi crudeli, si dice, perché erano secondi. Secondi a un fratello primogenito che aveva ereditato anche loro, ma come schiavi, come quei dipendenti che vorrebbero comandare, ma non ne hanno il rango. Questo rende la gente cattiva, da sempre. Così si arruolavano, per sfogarsi. E diventavano orribili soldati senza scrupoli.
Qualche ora fa, per quanto in sogno, dovendo andare da Napoli a Tripoli in treno, sono salito su una carrozza di prima classe di un accelerato uscito da un film di Paolo Villaggio. E mentre il Ragionier Fantozzi si comprava, per cinquantamila lire, un’ala di pollo di plastica e una mela bacata, io partivo dal binario 45 e 1/3, per questo viaggio immaginario, ma così reale, in una calda notte di mezza estate.
Il mio posto assegnato era accanto al finestrino, cosa inusuale per me, che prediligo il corridoio da quando ho compiuto sedici anni e vicino a me sedeva un ragazzo che avrà avuto proprio quell’età. Mi assomigliava, in effetti. Era un ragazzo molto alto e grosso, non grasso, proprio uno di quei colossi che non vanno fatti arrabbiare, ma con uno sguardo bonario e una folta chioma di un bel biondo scuro. T-shirt grigia presa da sua madre al mercato, con la scritta arancione “Number 3” (c’era anche “Number 1”, però la madre sosteneva che non fosse carino autodefinirsi con quel numero, così scelse quell’altro, perfetto, per definizione), pantaloncini corti neri, scarpe da ginnastica di marca Nike, taglia 47,5, e uno zainetto della Seven, come non se ne vedono più, rosso, giallo e nero.
Intorno a noi, nelle file dietro e in quelle davanti, sedevano altri ragazzi della stessa età, vestiti più o meno nello stesso modo, tutti con un walkman in mano. Alcuni avevano in testa il classico cappello di tela con visiera da giocatore da baseball di vari colori, altri con un’elegante visiera verde e la scritta “Casinò Municipale di Saint-Vincent”. Portavano quasi tutti orologi Swatch, tranne il mio vicino, che aveva un Breil.
Io indossavo, malgrado il caldo, un vestito molto stazzonato di lino beige. Qui devo soffermarmi un attimo e spiegare una cosa importante: la mia armocromista sostiene che il colore che mi sta meglio sia il blu, però nel negozio avevano finito i vestiti stazzonati di lino blu della mia taglia e quindi mi hanno suggerito il beige, che tutto sommato mi piaceva, perché mi fa sentire un po’ Indiana Jones. Inoltre mia madre stirava anche i fazzoletti e Suor Tecla (pace all’anima loro) perfino le tende. Al mattino trovavo stirate anche le mutande e non avrei mai potuto uscire con un vestito stazzonato e nemmeno con le scarpe non ben lucidate. Impossibile! Ogni volta che ho il vestito stazzonato penso a lei e mi vergogno un pochino. E d’altra parte, si sa, il lino si stazzona molto. Il lino si stazzona un casino. Che poi il termine “stazzonato”, chi mai lo usa? Mi madre diceva sempre “stropicciato”, i più chic dicono “sgualcito”, stazzonato mi ricorda un nazista che parla di una recinzione: “Fieni fia di stazzonata o noi sparamo te!”. Chiusa parentesi, scusate, era doveroso.
Avevo una cartella di cuoio nero, dalla quale ho estratto i giornali: Libertà (quotidiano storico di Piacenza), Corriere della Sera, Sole 24 Ore, Le Figaro, USA Today, il Times e l’inserto culturale di Topolino. Stavo anche finendo di leggere il secondo volume della “Poetica” di Aristotele, chiaramente in grego antico, che da Umberto Eco in poi tutti danno per disperso, perché quel mezzo lanzichenecco di Frate Guglielmo da Baskerville si è fatto fregare come un fesso da un vecchio cieco. Ne posseggo, segretamente, una rarissima copia personale autografata: “στον Ανδρέα με συμπάθεια, Αριστοτέλη”. Che tipo il mio amico Ari.
Ho estratto anche la mia penna stilografica, che mi è stata regalata da Pergolesi (l’ha messa in una copia del Pulcinella, infilata in un pianoforte poi da me comprato a Lipsia nel 1991, dopo la caduta del muro di Berlino. L’ho trovata nell’intercapedine tra le corde e il pianale in ghisa). E, siccome non tengo un diario, ho cominciato a scrivere un “Kyrie” per la mia nuova Messa di Gloria in do maggiore, anche se con i sussulti del treno faticavo a tirare le righe del pentagramma.
Mentre facevo quello i ragazzi parlavano ad alta voce come se fossero i padroni del vagone. Quello al mio fianco si è perfino messo a cantare, con mia somma sorpresa, una romanza dall’Andrea Chénier di Giordano. Purtroppo ha smesso quasi subito, perché i suoi chiassosi amici l’hanno insultato moltissimo, usando parolacce e un linguaggio dozzinale e totalmente privo di inibizioni, come quello che mi capitava di sentire al porto di Casablanca, mentre assistevo alla pesca del sarago.
Intanto il treno era arrivato a Lampedusa. Non sapevo che per andare da Napoli a Tripoli si dovesse passare da Lampedusa e poi da Sfax. Pensavo tirasse dritto, proprio, tipo una riga. Ho pensato perfino di aver sbagliato treno, invece è proprio così. Quando ho visto un barcone di migranti in direzione opposta mi sono subito rassicurato, peraltro.
Non avevo ancora rivolto la parola al mio vicino, che dopo essere stato insultato per aver cantato, si era messo a parlare con il medesimo linguaggio di ragazze e night club. Insomma, io dico “ragazze”, ma in realtà loro usavano quella orribile parola verticale di quattro lettere. Un altro ragazzo sosteneva che il posto migliore per cercare ragazze (questa volta definite con un sostantivo più peloso) fosse meglio la spiaggia. Non sono mai stato in spiaggia, però ho pensato che sul catamarano, in effetti, ci fosse spesso del viavai.
Ho deciso di domandare al mio vicino cosa mai facesse nella vita. Mi ha risposto che studiava e che, di lì a poco, sarebbe partito per alcuni mesi di studio a New York, per poi iscriversi alla facoltà di ingegneria, dapprima a Pavia e poi, chissà, al MIT. E, finito quello, magari sarebbe andato ad Harvard, per un MBA. Non ricordo mai la differenza tra "sticazzi" e "mecojoni", però nel dubbio ho ricominciato a leggere Aristotele.
Per loro chi ero io? Un signore molto figo, che forse veniva da Marte o proprio da Harvard. Che ne sanno loro che questo signore, a 16 anni, aveva una t-shirt grigia con la scritta “Number 3” e uno zaino rosso, nero e giallo della Seven?
Arrivando a Tripoli mi sono alzato, ho preso il suo zaino della Seven, gli ho lasciato in cambio la mia cartella di pelle nera, dicendogli: “Questa te la regalerà tua madre quando ti laureerai, ma ti prego, ricordati sempre di non andare in giro con i vestiti stazzonati. Si incazzerebbe da impazzire”. Nessuno di loro mi ha salutato, ma hanno tempo altri trent’anni per compatirmi anche un po’. Perché in fondo io sarei andato in spiaggia con loro e forse anche al night, se non fosse che dopo una certa ora mi viene un sonno clamoroso e ho il viso tutto stazzonato. In fondo vorrei far cambio, vorrei avere ancora i miei sedici anni, i miei amici stronzi, mia madre che mi stira il vestito, ragazze, night, cocktails e una vita piena di sogni. È per questo che continuo a cercare di stare con i giovani, perfino in sogno, perché i vecchi, a volte, si rincoglioniscono e non capiscono che oggi c’è Max Verstappen, perché Alain Proust, ormai, è in pensione da un pezzo.
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